I primi numeri della newsletter Valu.Enews – recentemente evoluta in un vero e proprio Research Magazine inerente le attività del Progetto PON Valu.E (INVALSI) nel suo complesso – offrono un panorama interessante delle attività di ricerca dell’INVALSI, e lasciano intravvedere la prospettiva ampia in cui si colloca il suo modo di intendere la valutazione formativa. Ciò che ho sempre apprezzato dell’INVALSI è la sua concezione della valutazione come apprendimento, e la sua apertura a una pluralità di approcci e metodi di valutazione, a seconda delle situazioni valutate, delle finalità di policy e della stessa valutatività delle iniziative. In un periodo in cui la valutazione è ormai divenuto strumento integrante delle policies, ma è anche al centro di contestazioni sulla sua funzione, la posizione dell’INVALSI mi sembra improntata a un atteggiamento pluralista e democratico. A fianco di strumenti più tradizionali, come le prove internazionali, che hanno lo scopo di una comparazione internazionale pur nella difficoltà di cogliere problemi e prospettive più rilevanti, vedo non solo l’introduzione di nuovi strumenti, come l’autovalutazione o le visite, ma anche un ragionamento che tende a migliorare in senso innovativo l’uso dei metodi tradizionali. In generale mi colpisce la costante attenzione alle situazioni di contesto entro cui apprezzare miglioramenti che sarebbero offuscati da medie nazionali. Ciò si coglie anche nel modo in cui viene delineato il rapporto tra conoscenze professionali e tacite, quando si chiede al valutatore esterno di rapportarsi al contesto e all’autovalutazione di essere strumento di autoriflessione al fine di sviluppare le proprie potenzialità. A me sembra che in Italia stiamo vivendo una situazione simile a quella che Barry MacDonald analizzò negli anni ’70 del secolo scorso, quando identificò tre tipi di valutazione: burocratica, tecnocratica e democratica. Cosa sia una valutazione burocratica non ha bisogno di molte spiegazioni: è quella che richiede di compilare questionari o fare cose di cui solo chi le ha richieste capisce il senso; e non mi riferisco alla necessaria raccolta di dati, che rientra nelle pure attività di monitoraggio, ma alla pretesa di adeguarsi a un modello di funzionamento burocratico calato dall’alto e non corrispondente alle aspettative e alle capacità di chi opera in una istituzione. È un tipo di valutazione in cui neppure il valutatore esercita alcun grado di autonomia e di responsabilità. La valutazione tecnocratica è invece quella che si è affacciata recentemente da noi. Il valutatore metodologo insiste sulla supremazia di metodi considerati i più rigorosi di ricerca, ai quali unicamente si riconosce la nobiltà della valutazione. In questo caso il valutatore osserva dall’esterno uno sviluppo e consegna i risultati della propria ricerca, ritenendosi un esperto in grado di formulare raccomandazioni che la politica dovrebbe poi trasformare in provvedimenti legislativi. In tal modo, il metodo di ricerca assume una preminenza, staccata dall’oggetto della politica e dal contesto in cui avviene la valutazione. È un tipo di valutazione che crea una professione esclusiva, ma non diffonde la valutazione come pratica tra chi è coinvolto in una situazione, chi beneficia di una politica, e forse nemmeno chi deve poi prendere decisioni. La valutazione democratica è quella di cui abbiamo più bisogno. Essa risponde al bisogno di conoscenza di una vasta platea di decisori, attuatori, beneficiari e persone interessate a qualunque titolo a una politica. Si propone di ascoltarli, di farli partecipare nella formulazione dei giudizi, di offrire loro strumenti di conoscenza che possano contribuire a modificare le situazioni e a produrre cambiamenti. Essa diffonde la cultura della valutazione nell’ambiente in cui opera.
La valutazione democratica non può che essere pluralista, ossia riconoscere che i diversi contesti e le diverse finalità di cambiamento richiedono di usare approcci e metodi appropriati alla situazione, da decidere insieme a tutti gli stakeholders, e da far evolvere a contatto con gli sviluppi della pratica.
Per questo motivo apprezzo molto il modo con cui l’INVALSI utilizza metodi di raccolta dei dati basati sia su sondaggi che su visite. In particolare, le autovalutazioni e le visite si prestano alla introduzione di approcci e metodi valutativi di ispirazione democratica, o meglio all’uso in chiave democratica dei metodi valutativi che si ritiene siano utili in quella data situazione. E sia chiaro che i metodi non sono di per sé democratici o meno, ma è l’intenzione con cui li si usa a renderli tali: uno studio di caso può essere condotto con una pregiudiziale aprioristica su ciò che si considera buono o cattivo; un esperimento può essere condotto con la mentalità aperta del suo primo proponente, Donald Campbell, che lo considerava uno strumento nelle mani di un amministratore democratico, interessato alle soluzioni di un problema, anche diverse da quelle originariamente proposte e testate con quel disegno di valutazione.
Mi auguro che questa Valu.Enews possa diventare uno strumento di riflessione su tutti questi aspetti, per far sì che i principali trend innovativi nell’ambito della valutazione formativa rappresentino pienamente uno strumento di formazione alla cittadinanza democratica.
Nicoletta Stame
Già Professore Ordinario di Politica sociale
Università Sapienza di Roma