Innovazione sociale e valutazione: un rapporto complesso su cui far luce

I temi inerenti l’innovazione e lo sviluppo della ricerca sono venuti ad assumere negli ultimi anni un rilievo crescente nell’ambito delle politiche pubbliche, anche rispetto alla stessa realtà valutativa. L’INVALSI ha avvertito l’importanza di occuparsi di innovazione e sviluppo della ricerca valutativa nel settore delle politiche educative, istituendo un’Area di ricerca dell’Istituto predisposta a tal fine. A partire da questo numero la Redazione di Valu.Enews ha ritenuto prezioso favorire una riflessione sui principali caratteri dell’innovazione nell’ambito delle politiche pubbliche e della ricerca sull’educazione e la valutazione: le ormai ‘classiche’ rubriche di Valu.Enews – negli ultimi tre anni entrate sempre più nel dibattito divulgativo sulla valutazione scolastica – potranno mettere a disposizione il proprio spazio di riflessione su questi argomenti, invitando diversi esperti a confrontarsi su queste questioni sempre più attuali nel dibattito pubblico e di ricerca in ambito sociale e politico-educativo. In questo numero la Professoressa Dora Gambardella dell’Università degli Studi di Napoli Federico II interviene per inaugurare questo nuovo “itinerario di lettura” per il pubblico di Valu.Enews, ragionando sulla particolare relazione tra innovazione, politiche pubbliche e valutazione. Un orizzonte spaziale per la ricerca tutto da costruire, forti di un bagaglio di competenze e significative lezioni apprese negli ultimi anni di ricerca in ambito sociale, valutativo ed educativo. Il Gruppo di ricerca del Progetto PON Valu.E ha recentemente avuto occasione di intervenire in dialogo con la Professoressa Gambardella nell’ambito della XII Conferenza Espanet Italia – rete di studiosi di politiche sociali – nella sessione dal titolo ‘Valutare l’innovazione sociale tra analisi d’impatto e saperi contestuali‘ coordinata congiuntamente dalle Professoresse Dora Gambardella e Mita Marra, e si è ritenuto di interesse continuare il dialogo.

Ogni periodo storico tende a porre l’attenzione dell’opinione pubblica su temi prioritari, e non è escluso che uno dei temi più sentiti nel nostro tempo sia il “fare innovazione”: un’esigenza diffusa di cambiamento e di adattamento alle mutevoli condizioni di contesto che sembra riguardare attori diversi – le aziende come il settore pubblico, ma anche il terzo settore e il non profit in generale – e che riguarda sia il “cosa” (i prodotti) che il “come” (i processi). Scontata una prima iniziale distinzione tra innovazione economica e innovazione sociale, l’elemento che ricorre più di frequente nella letteratura sull’innovazione sociale, ma anche nei documenti europei che a questo termine fanno sempre più spesso riferimento, è una positiva attesa di un beneficio collettivo che l’innovazione sociale dovrebbe produrre, un miglioramento del benessere collettivo che passa per la trasformazione delle relazioni sociali e soprattutto per la capacità di dare forma a nuove inedite collaborazioni tra attori diversi, sperimentando soluzioni che attraversano i confini tra il pubblico e il privato facendo emergere nuove logiche di azione “ibride”. Il dibattito europeo sul necessario ammodernamento del welfare, per fare un esempio, assume l’innovazione sociale come una soluzione alla scarsità delle risorse economiche e alla sempre minore efficacia dell’intervento pubblico; in questo contesto innovare il welfare significa, da un lato, dare risposte più efficaci ai bisogni sociali e, dall’altro, costruire nuove relazioni sociali e collaborazioni (Maino, 2013). Se dunque il welfare che si innova è chiamato a rivedere l’offerta dei servizi e la forma delle modalità di erogazione – quindi più i prodotti che i processi – in un settore quale quello dell’educazione, l’innovazione può al contrario riguardare più da vicino i processi piuttosto che i prodotti e dunque, per esempio, spinge a ripensare le metodologie didattiche per trovare nuove soluzioni al rischio di abbandono scolastico e persino universitario. Per quanto si tratti di prospettive di cambiamento molto evocative, se non talvolta retoriche, non si può non concordare con Pirone (2012) sulla necessità di usare il termine “innovazione sociale” con estrema cautela, perché molte sono le sue definizioni e molti sono i rischi di fare di questo termine un ombrello sotto cui ricade tutto e il contrario di tutto, svuotandolo di ogni suo iniziale e specifico significato.

Ma veniamo a una questione cruciale: che relazione possiamo stabilire tra l’innovazione sociale e la valutazione? In altre parole, valutare l’innovazione sociale comporta innovare la valutazione stessa?

Proverò a fare alcune iniziali osservazioni per rispondere a questa domanda. La valutazione è, nella sua essenza, un’attività di ricerca sociale che si mette in campo per rispondere ad una o più domande valutative che, a loro volta, dipendono in gran parte dall’interesse di chi la commissiona, assumendo che chi ha investito in una politica, programma o progetto di cui vuole conoscere i risultati abbia una chiara consapevolezza della direzione in cui desidera che vadano i risultati della politica, programma o progetto che ha disegnato e avviato. Uno dei compiti più complessi di un valutatore è quello di far sì che il committente maturi (se non la possiede già) questa consapevolezza, che sia in grado di rendere esplicita l’ipotesi di trasformazione della realtà che ha guidato il disegno della politica/programma/progetto, cioè che sia capace di ricostruire, per grandi linee, quello che i valutatori chiamano “teoria del programma”. Ma il compito del valutatore è soprattutto assicurare che il committente arrivi a esprimere le domande valutative in un modo che ne renda possibile la successiva traduzione in operazioni di ricerca praticabili e capaci di produrre risultati empirici solidi e rigorosi. La definizione delle domande valutative costituisce il primo passo del disegno della valutazione, cioè della prefigurazione di quel complesso di attività – di ricerca e non solo – che portano a trovare risposte ai quesiti di partenza. In questa prospettiva disegnare la valutazione comporta un costante affinamento delle fasi di ricerca empirica inizialmente previste che, anche al di là delle domande di partenza, deve tenere conto della natura del contesto, degli interessi e delle attese di quel complesso degli attori in campo che chiamiamo “stakeholder” – primi tra tutti i beneficiari –, delle forme di conoscenza tacita riconoscibili intorno all’oggetto della valutazione, dei risultati che progressivamente la politica/programma/progetto produce nel corso dell’implementazione, una volta che entra a contatto con la realtà (Stame, 2016). In questa chiave la valutazione non deve innovare se stessa per rispondere al compito di valutare innovazione sociale, almeno se per valutazione intendiamo un lavoro di ricerca competente, metodologicamente pluralista e capace di garantire la partecipazione e la convergenza degli interessi intorno a una prospettiva negoziata di cambiamento. Altro discorso è se, invece, la valutazione non rende trasparente l’ipotesi di trasformazione della realtà, viene disegnata dall’alto, trascura la diversità dei contesti di implementazione e le forme della conoscenza tacita, predilige un metodo rispetto ad un altro e il “pensare valutativo” viene ridotto a una campagna di raccolta di risultati valutativi, a riprova del successo di quanto inizialmente disegnato. Questa ‘sottovalutazione della valutazione’ è ravvisabile in alcune forme con cui il nostro Paese ne ha interpretato l’esigenza, traducendola come un obbligo di legge cui ottemperare senza interpretare, discutere, comparare i risultati finali che il lavoro di valutazione ha prodotto. Va dunque fatto un grande sforzo: separare lo spirito che contraddistingue il lavoro di valutazione, che è intrinsecamente riflessivo, aperto, partecipativo, dalle versioni generalizzanti e burocratiche che, talvolta, vengono proposte come unica soluzione praticabile alla necessità di fare valutazione.

Allenare il pensiero valutativo, il dialogo e la riflessività sono le migliori armi che possiamo mettere in campo per restituire alla valutazione lo spirito che le è più congeniale e costruire uno spazio pubblico della valutazione di cui noi tutti abbiamo grande bisogno.

Dora Gambardella
Professoressa di Sociologia generale e Vicedirettrice del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

Per approfondire:

 Maino F. (2013), Tra nuovi bisogni e vincoli di bilancio: Protagonisti, Risorse e Innovazione Sociale in Maino F. e Ferrera M. (a cura di) Primo rapporto sul secondo welfare in Italia, Centro Einaudi, Torino. 

Pirone, F. (2012), Innovazione sociale: l’estensione semantica di un concetto in ascesa politica, in «La Rivista delle Politiche Sociali», 4, 137-150.

Stame N. (2016), Valutazione pluralista, Franco Angeli, Milano.

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